Presentato in concorso alla 81ª Mostra del Cinema di Venezia, “Queer” è l’adattamento dell’omonimo romanzo di William S. Burroughs, scritto nei primi anni ‘50 durante l’esilio dell’autore a Città del Messico. Con una messa in scena visivamente straordinaria e una direzione registica coraggiosa, Luca Guadagnino non si limita ad adattare l’opera, ma ne compie una vera e propria adozione narrativa, mantenendone lo spirito originario e trasformandolo in un’esperienza sensoriale e cinematografica profonda, ibrida, inquieta. Il risultato è un’opera stratificata e ammaliante, in cui l’identità, il desiderio e la disconnessione trovano nuova forma e nuova voce.
Un viaggio tra desiderio e alienazione
Ambientato tra New Orleans e Città del Messico negli anni ‘40, il film segue la figura di Lee (Daniel Craig), alter ego dello stesso Burroughs, rifugiatosi in Messico per evitare un arresto per droga. Emarginato e tossicodipendente, Lee trascorre le sue giornate tra bar fumosi e incontri fugaci, inseguendo la speranza di una connessione autentica con altri uomini. Quando conosce Allerton (Drew Starkey), giovane e ambiguo ex-marine, nasce un’ossessione silenziosa e disturbata. I due partono insieme per un viaggio nel Sud America alla ricerca dello yage (ayahuasca), una droga che Lee crede possa donargli poteri telepatici. Ma il viaggio, reale e simbolico, si trasforma in un delirio allucinatorio dove la realtà si dissolve e l’identità si frantuma.
Craig, Starkey e un desiderio che divora
Daniel Craig è semplicemente straordinario. Il suo Lee è dolente, sfuggente, comico e tragico, in un corpo che cerca disperatamente contatto e finisce per divorarlo. Drew Starkey, etereo e sfuggente, incarna una bellezza intangibile e destabilizzante. La chimica tra i due è palpabile, ma sempre sbilanciata: Lee ama, desidera, proietta; Allerton assorbe, disarma, sfugge. I momenti erotici, mai pornografici, raccontano lo squilibrio tra chi chiede amore e chi non può concederlo.
Un’estetica che abbraccia l’eccesso
Justin Kuritzkes, già sceneggiatore di “Challengers“, lavora in maniera quasi filologica sul testo originale per gran parte del film, restituendo non solo i dialoghi e le atmosfere di Burroughs, ma anche il tono metallico e disincarnato della sua prosa. Guadagnino innesta questo impianto con un’estetica melodrammatica che lo riscalda e lo trasforma, anche grazie alla fotografia di Sayombhu Mukdeeprom, ricca di colori saturi tra paesaggi messicani ricostruiti a Cinecittà e sequenze in cui il tempo sembra sospeso.
La colonna sonora di Trent Reznor e Atticus Ross, composta da stratificazioni elettroniche e suggestioni jazz e bossa nova, si fonde con brani cult – da Nirvana a New Order, fino a Prince e ai Verdena – generando un effetto camp e straniante. I costumi di Jonathan Anderson sono tra i più raffinati della stagione: ricostruzioni storiche autentiche, dettagli psicologici e riferimenti simbolici accompagnano la discesa di Lee nella dipendenza e nella dissoluzione. Ogni camicia, ogni tessuto, racconta una parte di ciò che il personaggio non riesce a dire a parole.
Un’esplosione visionaria
Nell’ultimo atto, Guadagnino abbandona però la narrazione lineare e si appropria del testo, immaginando una terza parte mai scritta da Burroughs. Il viaggio per cercare lo yage si trasforma in un’allucinazione psichedelica, in cui i corpi si fondono e il reale si confonde con l’onirico. Qui il regista evoca Cronenberg, Lynch, Cocteau, fino a toccare la tecnica del cut-up, cara a Burroughs, destrutturando la linearità della storia in un lungo montaggio visionario. Guadagnino riesce dunque a tradurre l’introspezione del romanzo in immagini potenti e simboliche, creando un film che rimane impresso per la sua capacità di esplorare temi complessi come l’identità, il desiderio e l’alienazione.
Il queer come disincarnazione
Nonostante il titolo, “Queer“ non è infatti un manifesto politico sull’omosessualità. È un film sulla perdita di identità, sul tentativo di fuggire da sé stessi attraverso gli altri. Lo dice lo stesso Lee: «Non sono queer. Sono disincarnato». Il queer, allora, è uno stato dell’anima, una deviazione, una stranezza ontologica: è l’estraneità radicale dal mondo. Guadagnino filma questa alienazione con rispetto, ironia e una forza poetica rara.
“Queer“ è un’opera che non lascia indifferenti in un viaggio sensoriale che sfida e coinvolge lo spettatore. In sala dal 17 aprile, distribuito da Lucky Red.