Presentato ad Alice nella Città in collaborazione con la Festa del Cinema di Roma, Anemone segna il ritorno di Daniel Day-Lewis sullo schermo dopo otto anni, diretto dal figlio Ronan Day-Lewis. Ambientato nel nord dell’Inghilterra, il film segue l’incontro tra due fratelli separati da decenni: Ray (Day-Lewis), un uomo che vive isolato nei boschi, e Jem (Sean Bean), che lo raggiunge per tentare una riconciliazione. Il passato condiviso, fatto di traumi, colpa e silenzi legati al periodo dei Troubles, riaffiora in una serie di confronti carichi di rancore e confessioni dolorose. Accanto a loro, Samantha Morton interpreta Nessa, moglie di Jem e voce di un dolore domestico represso.
Un dramma che parla troppo e comunica poco
Anemone è un film dominato dalla parola: monologhi interminabili, confessioni scandite da lunghi piani fissi e dialoghi che più che rivelare, soffocano. Ronan Day-Lewis costruisce un racconto che confonde introspezione con ostentazione, affidandosi quasi interamente alla voce del padre, che recita per minuti interi in un silenzio tombale. Il risultato, però, è un esercizio di stile privo di tensione, dove la scrittura teatrale diventa un ostacolo alla narrazione. Ogni emozione è raccontata invece che mostrata, e la presunta profondità del testo si rivela presto una vuota autocompiacenza.
Daniel Day-Lewis, l’attore che salva (parzialmente) il film
Nonostante tutto, Daniel Day-Lewis rimane magnetico. Anche immerso in un copione che sembra fatto per intrappolarlo, trova sprazzi di umanità in mezzo all’enfasi e alla verbosità. Il suo Ray è un uomo distrutto, ossessivo, quasi mitologico, ma ogni sua parola, anche le più grottesche, viene pronunciata con una convinzione che solo un attore del suo calibro potrebbe sostenere. Sean Bean, confinato a ruolo di spalla muta, e Samantha Morton, sottoutilizzata in un personaggio che avrebbe meritato molto di più, restano invece vittime di una regia che non concede spazio né ritmo.
Belle immagini, ma nessuna anima
Visivamente, Anemone ha momenti suggestivi: il bosco, la pioggia, il mare del Nord, gli interni grigi e spenti. Ronan Day-Lewis dimostra un buon occhio per la composizione e una sensibilità fotografica notevole. Tuttavia, l’estetica sembra fine a sé stessa: ogni sequenza appare studiata per essere “bella”, ma raramente significativa. Le metafore visive – i fiori che appassiscono, la tempesta finale, l’acqua purificatrice – rimangono isolate, simboli senza peso, più vicini a un esercizio di cinema accademico che a un linguaggio personale.
Un film prigioniero delle proprie ambizioni
Anemone vorrebbe parlare di memoria, colpa e mascolinità ferita, ma finisce per essere un film sul vuoto. L’ambizione di Ronan Day-Lewis di confrontarsi con i grandi temi del trauma e della riconciliazione si scontra con una totale mancanza di misura. I silenzi diventano pose, la malinconia si trasforma in manierismo, e il simbolismo, più che evocare, confonde. Persino la colonna sonora, di rara eleganza, finisce per sottolineare un dramma che non trova mai vera vita.
Alla fine, Anemone è come il fiore da cui prende il nome: fragile, evanescente, e destinato a svanire una volta passata la stagione. Un film tanto curato quanto sterile, che non riesce mai a fiorire davvero.
In sala dal 6 novembre, distribuito da Universal Pictures.

