California Schemin’

Con California Schemin’, presentato nella sezione Freestyle della Festa del Cinema di Roma, James McAvoy firma un esordio alla regia sorprendentemente maturo e personale. Dopo trent’anni davanti alla macchina da presa, l’attore scozzese sceglie di raccontare una storia di ribellione e identità, ispirata a una vicenda reale tanto assurda quanto simbolica.

Nel film, ambientato nei primi anni Duemila, due giovani rapper di Dundee, Gavin Bain (Séamus McLean Ross) e Billy Boyd (Samuel Bottomley) vengono respinti dall’industria musicale perché “troppo scozzesi”. Decisi a farsi strada, fingono di essere due americani di nome Silibil N’ Brains e riescono a ingannare discografici e media, conquistando il successo sotto falsa identità. 

Un racconto di ambizione e maschere

McAvoy affronta la parabola dei due protagonisti con energia e ritmo, trasformando quella che potrebbe sembrare una commedia truffaldina in un racconto sul prezzo dell’ambizione. Dietro l’ironia e il tono scanzonato, il film interroga la pressione a reinventarsi per essere accettati, l’idea di autenticità e il bisogno di appartenere a qualcosa.

La regia privilegia la spontaneità: lunghi piani sequenza, montaggio nervoso, una fotografia vivace che alterna la grigia provincia scozzese alle luci artificiali della Londra musicale. McAvoy mostra un gusto sicuro per il racconto pop senza perdere sensibilità drammatica, dimostrando un controllo del tono raro per un debutto.

Una coppia irresistibile

Il cuore del film sta nella relazione tra Gavin e Billy. Ross e Bottomley hanno una chimica perfetta: il primo dà al suo personaggio un’irrequietezza quasi tragica, mentre il secondo bilancia con ironia e leggerezza. Insieme costruiscono un duo credibile, autentico anche quando tutto ciò che li circonda è artificiale.

Accanto a loro spiccano Lucy Halliday nei panni di Mary, la fidanzata devota e ironica di Billy, e Rebekah Murrell come Tessa, l’agente musicale che crede in loro più di quanto credano in sé stessi. Entrambe beneficiano di una scrittura che concede spazio e umanità alle figure femminili, troppo spesso marginali in questo tipo di storie. Lo stesso McAvoy, in un cameo divertito e autoironico, interpreta un discografico caustico, emblema di un sistema cinico e distratto.

Autenticità e appartenenza

Il film trova la sua forza tematica nella riflessione sull’identità. Essere “troppo scozzesi” per il mercato musicale diventa metafora di ogni barriera culturale o linguistica che limita la possibilità di espressione. McAvoy filma i suoi protagonisti con empatia e curiosità, mettendo in scena la tensione tra ciò che si è e ciò che si finge di essere per sopravvivere.
Senza appesantirsi in discorsi teorici, California Schemin’ mostra quanto fragile sia la linea tra costruzione e verità, e quanto alto possa diventare il costo del successo quando comporta il tradimento delle proprie radici.

Musica, ritmo e sentimento

Il film vibra grazie alla musica. Le sequenze rap sono montate con precisione, le canzoni originali hanno un’energia contagiosa e restituiscono l’entusiasmo ingenuo dei due protagonisti. McAvoy lascia spazio ai performer e costruisce attorno a loro una messa in scena diretta, senza virtuosismi inutili, che privilegia il ritmo e la fisicità.

La colonna sonora, curata con gusto, accompagna la narrazione con un tono oscillante tra euforia e malinconia, evocando lo spirito dei primi Duemila e la sensazione dolceamara di un sogno troppo grande per essere vero.

McAvoy, una prima volta da ricordare

California Schemin’ è un esordio brillante, ricco di energia e sincerità. Qualche passaggio narrativo risulta prevedibile, e non tutte le sfumature psicologiche vengono approfondite, ma la regia di McAvoy sorprende per maturità e controllo, e il cast dona spessore a una storia che sa divertire e commuovere. Un film “gallus”, audace e pieno di cuore, che celebra gli outsider e il coraggio di inseguire i propri sogni – anche quando costano più di quanto si immaginava.

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