David Giovani

Il David Giovani è un esperienza unica. C’è stato un anni in cui il cinema italiano sembrava respirare di nuovo a pieni polmoni, farsi carne viva, emozione collettiva. Tutti erano d’accordo nel dire che il 2015 era un’ottima annata per il cinema nostrano. Io ero ancora uno studente del liceo classico, con lo zaino sulle spalle e la voglia di scoprire il mondo e capire cosa fosse realmente il cinema. Quell’anno partecipai al Premio David Giovani grazie ad Agiscuola, senza sapere che mi avrebbe cambiato il modo di guardare i film (o quasi).

Per chi non lo sapesse il la Giuria giovani del David di Donatello è composta dai ragazzi e le ragazze che frequentano gli ultimi due anni di Liceo. Nato l’8 Gennaio del 1997, questo progetto offre la possibilità agli studenti ad “avvicinarsi” al mondo del cinema italiano. Il premio è parte integrante dei David di Donatello e viene assegnato insieme agli altri premi durante la serata di premiazione (quest’anno il 7 Maggio).

Andavamo al cinema guidati dai professori. Seduti in poltrona, con il buio che inghiottiva ogni distrazione, vedevamo sfilare davanti a noi il meglio che il nostro Paese riusciva ancora a raccontare.

Alla fine, ci aspettava il compito di scegliere il film migliore, secondo noi. Credo fermamente che fu una stagione di rinascita. Il cinema italiano sembrava svegliarsi da un lungo torpore, parlando di noi, dei nostri sogni, delle nostre paure più profonde.

C’era “Lo chiamavano Jeeg Robot”, che prendeva il mito del supereroe e lo trascinava nelle strade sporche di Tor Bella Monaca, ricordandoci che anche tra le macerie può nascere la speranza, in cui la linea tra buoni e cattivi è molto sottile

Il film italiano dei record per remake: “Perfetti sconosciuti”. Una grande parabola sulla solitudine contemporanea, il film che ci sbatteva in faccia una verità scomoda: conosciamo davvero le persone che amiamo? O siamo solo isole, illuminate da schermi troppo piccoli? Una commedia solo in apparenza leggera, che nasconde un sottile velo d’angoscia e ci mostra quanto possa essere fragile l’equilibrio dei sentimenti quando si viola l’intimità altrui.

E poi “L’attesa”, di Piero Messina: un film fatto di silenzi, di sospensioni, di assenze. Un film che parlava del dolore come di qualcosa che non può essere detto, solo abitato.

“Fuocoammare” di Gianfranco Rosi ci portava a Lampedusa, tra le vite spezzate dei migranti, mentre il mondo voltava lo sguardo altrove. Era il racconto dell’umanità nuda, senza retorica, come uno specchio che non potevamo più evitare.

L’ultima impresa: “Non essere cattivo” di Claudio Caligari. Il testamento struggente di un regista che parlava degli ultimi con uno sguardo pieno d’amore e rabbia, raccontava l’illusione di cambiare vita e il peso insopportabile delle proprie origini e che portava sullo schermo l’incredibile coppia Marinelli/Borghi.

“Veloce come il vento” di Matteo Rovere, con le sue corse sfrenate e le sue redenzioni impossibili, era il grido disperato di chi sa che il talento, se non curato, può diventare una maledizione.

“La corrispondenza” di Giuseppe Tornatore, invece, inseguiva il fantasma dell’amore perduto, lottando contro l’oblio del tempo e della morte, come a dire che alcune connessioni resistono oltre il visibile.

Vinse proprio “La corrispondenza“, un film che oggi, a distanza di anni, non ricordo a pieno nella trama, nei dettagli, nei dialoghi. Ma posso ricordare quelle emozioni. Quella sensazione sospesa, come se il tempo si fosse piegato per un attimo, lasciandoci intravedere l’idea che l’amore potesse sopravvivere alla distanza, al silenzio, persino alla morte. Il volto di Jeremy Irons con la sua voce spezzata, le lettere, i messaggi lasciati come tracce invisibili nel tempo.

Guardare questi film non era solo intrattenimento: era vivere e capire che dietro ogni storia c’era una parte di noi stessi. Il cinema racconta di noi, dei nostri sogni e sopratutto delle nostre paure.

Quell’esperienza mi ha insegnato molto. Non solo a guardare un film con occhi più attenti, ma anche a sentire più profondamente. Ho imparato che ogni film è una finestra sul mondo, una chiave che apre porte a realtà che altrimenti non avremmo mai conosciuto. Mi ha insegnato che il cinema è il nostro specchio: ci mostra ciò che siamo, ci fa riflettere su ciò che potremmo diventare.

E, cosa ancora più importante, mi ha mostrato che ogni storia, per quanto piccola, ha il potere di cambiare il modo in cui vediamo noi stessi. Ogni film che ho visto quell’anno mi ha accompagnato dentro una realtà che non mi apparteneva, ma che ora sentivo propria. Mi ha fatto crescere, mi ha fatto diventare un po’ più grande, un po’ più consapevole.

Non ricordo quale fu il film che votai. Quello che conta è che, quell’anno, per una volta, il pubblico e l’Accademia si trovarono a camminare insieme, come se il cinema italiano avesse riscoperto il suo vero volto: imperfetto, fragile, ma capace di parlare al cuore di tutti.

Oggi, se torno a quel 2015-2016, lo vedo come un crocevia: da una parte, il passato glorioso che ci pesava sulle spalle; dall’altra, la possibilità di ricominciare a raccontare il mondo con sincerità.
Quell’anno non nacquero solo nuovi film: nacquero nuove speranze. E forse, anche qualche spettatore migliore.

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