Presentato nella sezione Best Of della ventesima Festa del Cinema di Roma, Die My Love segna il ritorno di Lynne Ramsay dopo sette anni di silenzio. La regista di You Were Never Really Here e …e ora parliamo di Kevin torna a esplorare il dolore femminile con la consueta intensità visiva e un linguaggio che unisce realismo e allucinazione. Tratto dal romanzo di Ariana Harwicz e scritto insieme a Enda Walsh e Alice Birch, il film racconta la progressiva discesa nella follia di Grace (Jennifer Lawrence), una scrittrice che, dopo essersi trasferita in campagna con il compagno Jackson (Robert Pattinson) e la nascita del loro primo figlio, inizia a perdere contatto con la realtà. Nel cast anche Sissy Spacek, LaKeith Stanfield e Nick Nolte.
Maternità come prigione mentale
La maternità, per Ramsay, è ancora una volta un prisma attraverso cui riflettere sul corpo e sull’identità femminile. In Die My Love non c’è nulla di rassicurante: la casa immersa nella natura è una trappola, il bambino un peso silenzioso, il marito un’assenza rumorosa. Grace vive in uno stato di tensione continua, tra desiderio e repulsione, amore e autodistruzione. Tuttavia, la regista sceglie di mostrarci solo la crisi, mai la caduta. Non esiste un “prima”: la protagonista è già instabile, già consumata, e il film finisce per confondere la depressione post-partum con una generica follia femminile. Manca il contrasto che renderebbe il crollo emotivo davvero tragico.
Jennifer Lawrence, corpo e abisso
Jennifer Lawrence si offre completamente al film, in una performance feroce e fisica che la riporta ai suoi ruoli più estremi. È magnetica, spesso disturbante, ma intrappolata in una scrittura che non le permette sfumature. Ramsay la filma come un corpo in combustione: graffi, urla, corse nel bosco, specchi che riflettono un’immagine alterata. Tuttavia, il film – e qui risiede una delle sue incoerenze più evidenti – non osa mai davvero mostrare la vulnerabilità del corpo materno. La regia celebra il disordine mentale ma edulcora quello fisico: una scelta che mina la sincerità del racconto e trasforma l’esperienza in una stilizzazione estetica del dolore.
Robert Pattinson e gli altri: presenze fantasma
Pattinson interpreta Jackson con un distacco quasi glaciale, ma il film non gli offre occasione di esistere al di là del ruolo di catalizzatore. Lo stesso vale per i comprimari: Sissy Spacek e LaKeith Stanfield restano simboli, ombre in un mondo dominato dal punto di vista di Grace. L’idea è coerente con la visione di Ramsay, ma il risultato è uno squilibrio che impoverisce la dimensione relazionale e rende la storia più astratta che emotiva.
Estasi visiva, caos narrativo
Girato dal maestro Seamus McGarvey, Die My Love punta tutto su un impianto visivo fortemente stilizzato, ma non sempre efficace. La scelta del formato 4:3, pensata forse per restituire la chiusura mentale della protagonista, finisce per comprimere inutilmente gli spazi, togliendo respiro a un film che si svolge in ambienti naturali e aperti. Le luci calde e il disegno sonoro – il ronzio degli insetti, il respiro affannato, i colpi del cuore – creano comunque un’atmosfera ipnotica e sensoriale, coerente con la deriva psicologica di Grace. Ramsay usa un linguaggio fatto di ellissi e immagini che parlano più delle parole, ma la frammentarietà diventa presto un limite. I simboli (il cavallo, il motociclista, la foresta, le mosche) si moltiplicano senza trovare un equilibrio, mentre il film oscilla incerto tra horror psicologico, dramma domestico e allucinazione poetica, senza mai scegliere una direzione definitiva.
Una bellezza inquieta che non graffia abbastanza
Die My Love è cinema che brucia di passione, ma anche di indecisione. Ramsay mette in scena il disfacimento dell’identità femminile con coraggio visivo e intensità emotiva, ma senza la lucidità narrativa che renderebbe l’opera davvero devastante. Il film affascina, inquieta, ma lascia una sensazione di incompiutezza: come se l’urlo di Grace restasse intrappolato nello schermo. Alla fine, Die My Love resta una sinfonia di frammenti splendidi, un vortice di luce e dolore che si osserva con ammirazione più che con empatia.
In sala dal 27 novembre, distribuito da MUBI.

