Quello di Dile a Roma, il 13 giugno 2025, è stato uno di quei concerti che non solo si ricordano, ma che si sentono addosso, anche giorni dopo. All’Alcazar Garden, tra le luci soffuse e una città già proiettata verso l’estate, la musica si è fatta carne, confessione, respiro condiviso. Forse è stata la cornice. Forse è stato il pubblico. O forse è stata la voce di Dile, che non si limita a raccontare storie: le apre, le smaschera, le lascia sanguinare senza paura.
Sul palco con lui la formazione di sempre: Andrea Zanobi al basso, Iacopo Volpini alla batteria, Federico Proietti alla chitarra e ai cori. Una band che non ha bisogno di effetti speciali per emozionare. Il concerto si apre con “Chiacchiere”, un brano che affronta la fine di una relazione attraverso i piccoli gesti, le memorie, il dolore che continua a bruciare anche quando si vorrebbe soltanto andare oltre. Seguono “Affetto collaterale” e “Tangenziale”, due canzoni che parlano di parole che feriscono, di attenzioni che non tornano mai indietro. Il pubblico ascolta, si riconosce, e inizia a cantare con sempre più intensità.

Poi arriva “Marciapiedi”, e tutto si ferma. Per me è stata la prima canzone che ho ascoltato consapevolmente di Dile. Ricordo ancora ogni parola, ogni lacrima trattenuta. Questo brano è un’estate cristallizzata, un momento di sospensione tra attesa e verità, tra contatto e bugie. In quell’istante, ho sentito tutto: me stessa, i miei silenzi, le mie finzioni.
Avevo atteso questo concerto per mesi. Non vedevo l’ora di cantare a squarciagola, insieme alla mia partner in crime. Eppure, le emozioni sono state attraversate anche da una certa malinconia. Alcuni rapporti – sentimentali o di amicizia – si sono chiusi senza spiegazioni. È difficile accettarlo, ed è proprio in questo che amore e amicizia a volte si somigliano: entrambi possono ferire, entrambi possono lasciare vuoti che non si colmano.
Le canzoni di Dile insegnano quanto restiamo prigionieri dei nostri pensieri, quanto spesso il dialogo viene a mancare, e quanto dolore potrebbe essere evitato se solo si trovasse il coraggio di parlarsi. Alcuni brani andrebbero urlati con rabbia, con un dito medio alzato verso chi ci ha imposto un ruolo nella sua storia senza concederci voce. Si finisce per diventare i cattivi della narrazione di qualcun altro, senza possibilità di appello. “Mi prende male quando vedo te” diventa un mantra condiviso, per tutte le volte in cui abbiamo silenziato il nostro dolore per far spazio a quello degli altri. Ma alla fine restano solo le canzoni, quelle che raccontano la verità che nessuno ascolta, anche se le stai urlando.
La scaletta prosegue con “Duemilaventi”, “Sarebbe bello ve’”, “Maledetti noi”, “Sotto casa tua”, “Fino alle sette”. È una discesa dolce e tagliente nel cuore delle relazioni, nei loro limiti, nelle loro nostalgie. Sul palco sale anche Federica Carta, ospite per il brano “Che mettevi sempre”. Non è il momento più forte del concerto, ma rappresenta un bel gesto di condivisione artistica: la dimostrazione che la musica può unire mondi, voci, emozioni. Con “Sceneggiatura”, “Mondocane”, “Quando vedo te”, “La verità” e “Migliore di me”, il concerto si addentra nella parte più fragile e intima. Poi arriva “Sempre peggio”, la canzone che balliamo, ma che ci lacera dentro. “Tanto non mi amerai”: non serve altro. L’abbiamo cantata tutti, come una liberazione collettiva.
“Carnevale” continua ad essere una ferita a cielo aperto. Un brano catartico, che parla di “ammissioni” con una lucidità e una sensibilità rare. È impossibile restare indifferenti, specie quando il cuore sembra saturo. Si torna, però, a ballare – o almeno si prova – con “Ti capita mai”, perché sfidiamo chiunque a non ritrovarsi in almeno una frase di questo testo. “Fineserata” e “Rewind” ci riportano con i piedi per terra, un gesto istintivo di resistenza emotiva.
Dile non canta. Dile svela. Le sue canzoni sono specchi, confessioni collettive, promemoria dolorosi e vitali. Chi c’era all’Alcazar Garden quella sera sa che uscire uguali a prima era semplicemente impossibile. Un monito sul restare a galla, per non pensare, o semplicemente per sentirsi ancora vivi.

