Con Glenrothan, Brian Cox debutta alla regia con un progetto profondamente personale, una sorta di “lettera d’amore” alla Scozia e alle sue radici. Scritto da David Ashton, il film racconta la storia di due fratelli divisi da un passato irrisolto: Donal (Alan Cumming), emigrato in America dopo una lite familiare, e Sandy (lo stesso Cox), rimasto nel villaggio delle Highlands a mandare avanti la distilleria di famiglia. Quando la malattia costringe Sandy a fare i conti con la solitudine e con ciò che ha perso, tenta di riallacciare i rapporti col fratello, che torna in patria insieme alla figlia Amy (Alexandra Shipp) per affrontare segreti, una vecchia fiamma (Shirley Henderson) e un futuro incerto.
Una storia di riconciliazione già vista
L’intento è nobile: raccontare la riconciliazione, la memoria, il peso del tempo che passa. Ma ciò che poteva essere un dramma familiare toccante scivola rapidamente nella prevedibilità. Ogni svolta emotiva sembra programmata al millimetro, ogni conflitto si risolve con la rapidità di un film Hallmark. L’assenza di vera tensione narrativa e la piattezza del tono impediscono al film di trovare un’identità. Anche le tematiche centrali – il legame con la terra, la nostalgia, la redenzione – restano enunciate, mai vissute.
Dialoghi meccanici e interpretazioni smarrite
Il problema principale di Glenrothan è nella sua scrittura: i dialoghi sono spesso meccanici, spiegati più che recitati, con personaggi che verbalizzano i propri sentimenti come se dovessero spiegarli al pubblico. Shipp, costretta a incarnare la voce della ragione, si ritrova intrappolata in battute rigide e spiegoni infiniti. Alan Cumming, solitamente carismatico, brilla solo quando può cantare: gli unici momenti in cui il film prende vita. Shirley Henderson, pur sempre intensa, è ridotta a un ruolo isterico e privo di sfumature. E Brian Cox, paradossalmente, appare il più disinteressato di tutti: il suo Sandy è un uomo vagamente malinconico, ma senza conflitto né profondità.
Regia e stile senza direzione
Da attore formidabile qual è, ci si sarebbe potuto aspettare da Cox un esordio maturo dietro la macchina da presa. Invece, la regia appare incerta, oscillando tra il classico dramma televisivo e la pubblicità turistica. Le scene musicali, in particolare, rivelano una totale mancanza di ritmo e consapevolezza visiva: la sequenza della jam session al pub è montata in modo frenetico e disorientante, mentre altrove la macchina da presa rimane statica, incapace di trovare un punto di vista.
La fotografia di Jaime Ackroyd cattura sì la bellezza delle Highlands, ma senza carattere o significato: ogni inquadratura sembra rubata a uno spot del turismo scozzese, più che a un racconto personale e intimo.
Un film che non sa cosa vuole essere
C’è del potenziale in Glenrothan – la malinconia, la musica, il ritorno alle origini – ma Cox non riesce mai a trasformare questi elementi in qualcosa di vivo o necessario. Tutto rimane in superficie, congelato in una compostezza che toglie forza alle emozioni. Persino i momenti più drammatici, come il confronto tra i due fratelli o la scoperta dei segreti familiari, risultano privi di peso, girati e recitati con un distacco quasi imbarazzato.
Glenrothan è un film fatto con buone intenzioni ma nessuna visione. Un debutto disorientato e privo di verve, che non rende giustizia né al talento dei suoi interpreti né alla potenza del paesaggio scozzese che vorrebbe celebrare. Il risultato è un dramma famigliare tiepido e convenzionale, che conferma una triste verità: essere un grande attore non significa necessariamente saper fare un buon film.

