Presentato in Concorso al 78esimo Festival di Cannes, The Mastermind è il nuovo film di Kelly Reichardt (First Cow, Showing Up). Ambientato in una tranquilla periferia del Massachusetts all’inizio degli anni Settanta, segue la storia di J.B. Mooney (Josh O’Connor), padre di famiglia disoccupato e ladro d’arte improvvisato, deciso a compiere la sua prima rapina. Con l’aiuto di due complici e un piano che crede infallibile, tenta il furto di quattro tele di Arthur Dove dal museo locale. Il cast comprende anche Alana Haim, Gaby Hoffmann, John Magaro, Hope Davis e Bill Camp.
Un antieroe irresistibile
Josh O’Connor costruisce un J.B. Mooney memorabile, allo stesso tempo scaltro e ingenuo, capace di oscillare tra la spavalderia del “mastermind” e la goffaggine di un eterno ragazzo incapace di assumersi responsabilità. È un bugiardo compulsivo, un marito infedele, un padre assente, eppure O’Connor riesce a renderlo irresistibile, come un cane disobbediente che non smette di suscitare simpatia. Attorno a lui gravita una famiglia che porta il peso delle sue mancanze: la moglie Terri (Haim), relegata in un ruolo silenzioso e frustrante; il padre giudice (Camp), che lo incalza senza tregua; gli amici che finiscono per scaricarlo stanchi della sua irresponsabilità. Tra tutti, spicca Gaby Hoffmann, che con poche scene incarna la coscienza morale del film, lo sguardo disilluso che inchioda Mooney alle sue colpe.
Kelly Reichardt e l’arte della sottrazione
Reichardt prende il modello del heist movie e lo priva di ogni spettacolarizzazione. Non c’è adrenalina, non ci sono sparatorie né fughe mozzafiato: la rapina diventa un gesto minimo, quasi grottesco, osservato con distacco e ironia. La tensione si condensa in dettagli apparentemente banali – un’auto parcheggiata male, un poliziotto che si ferma a mangiare un panino – che rivelano la fragilità del piano e la goffaggine dei protagonisti. È una scelta di sottrazione tipica della regista, che preferisce mostrare i vuoti, i silenzi e le casualità piuttosto che gli exploit eroici.
America 1970: tra disincanto e casualità
Lo sfondo storico amplifica il ritratto di un uomo fuori posto. Gli Stati Uniti sono attraversati da scioperi studenteschi e proteste contro la guerra in Vietnam, ma Mooney non ha ideali né passioni: sfrutta quel caos come copertura, riducendo l’impegno politico a puro rumore di fondo. Reichardt intreccia così l’erranza del protagonista al clima disilluso di un’epoca, mostrando come l’opportunismo individuale si specchi nell’erosione collettiva di valori. La fuga del ladro diventa un road movie anomalo, percorso da improvvisi tocchi surreali e da un’ironia sempre in sordina.
Autunno americano, colori della fuga
Con l’aiuto del fidato direttore della fotografia Christopher Blauvelt, Reichardt dipinge un Massachusetts autunnale, dalle tonalità calde e pittoriche, in netto contrasto con la freddezza emotiva di Mooney. Ogni dettaglio visivo – dalle camicie usate come tende fino al montaggio misurato – contribuisce a trasformare la storia in una riflessione più ampia sul caso e sul destino. La regista orchestra il film come un racconto breve, apparentemente semplice ma ricco di sfumature, che sfugge a ogni morale definitiva.
Un heist movie al rallentatore
The Mastermind è un heist movie rovesciato, dove la suspense lascia spazio al fallimento e l’azione diventa un pretesto per un ritratto ironico e malinconico di un antieroe senza qualità. Josh O’Connor offre una delle sue prove più sfaccettate, trasformando la mediocrità di J.B. Mooney in pura materia cinematografica. Reichardt conferma il suo sguardo unico: sobrio, umoristico e disincantato, capace di restituire al pubblico il piacere di un cinema che osserva più che spiegare, che suggerisce più che affermare. Un’opera minore solo in apparenza, che conquista con la sua eleganza trattenuta e la sua sottile ironia.
The Mastermind è in arrivo nelle sale italiane il 30 ottobre con distribuzione MUBI.

