Con “Vie privée“, presentato fuori concorso a Cannes e poi alla Festa del Cinema di Roma, Rebecca Zlotowski firma la sua opera più leggera e al tempo stesso più intima. Dopo i toni malinconici di “I figli degli altri,” la regista francese torna alla commedia, ma lo fa con un’ironia velata, quasi beckettiana. Fin dai titoli di testa, scanditi dal riff di Psycho Killer dei Talking Heads, il film dichiara la propria volontà di giocare con i codici del genere e con la psiche di chi guarda.
Jodie Foster, un’elegante outsider
Lilian Steiner (Jodie Foster) è una psichiatra americana trapiantata a Parigi, austera e brillante, che ha fatto della razionalità la sua corazza. Quando una delle sue pazienti muore in circostanze sospette, Lilian si convince che non si tratti di suicidio e comincia un’indagine personale che la trascina in un labirinto di ipotesi, proiezioni e fantasie. È una sorta di Misterioso omicidio a Manhattan in salsa parigina, con Daniel Auteuil nei panni dell’ex marito che la segue, riluttante, in questa indagine domestica e buffamente assurda. Foster, perfettamente bilingue, attraversa il film con leggerezza e precisione chirurgica: il suo personaggio vive tra controllo e smarrimento, intelligenza e autoinganno, rendendo credibile ogni oscillazione emotiva. È una performance magnetica, ironica e malinconica insieme, capace di sostenere un film che esiste, in gran parte, grazie al suo carisma.
Il gioco dei ruoli e l’illusione della verità
Zlotowski costruisce un intreccio che sembra un giallo ma che, in realtà, si rivela presto un pretesto per esplorare la crisi di una donna che ha fatto della comprensione altrui la propria maschera. Purtroppo, l’indagine di Lilian perde progressivamente consistenza, diluita da troppe sottotrame e deviazioni psicologiche che finiscono per svuotare la tensione narrativa. Ogni incontro, ogni intuizione, appare come una proiezione del suo inconscio più che un passo avanti nella storia, e le incursioni oniriche – come la discesa letterale nel subconscio – rischiano di appesantire ciò che avrebbe dovuto restare sottile.
La regista gioca con i confini tra sogno e realtà, parodia e dramma, ma il risultato è un film dissonante, dove il tono brillante e la riflessione esistenziale si scontrano più che fondersi. Sebbene si punti all’ambiguità, si finisce spesso nell’indecisione: il ritmo si spezza, la struttura si sfilaccia, e l’indagine perde mordente proprio quando dovrebbe trovare un centro emotivo.
Il cinema come autoanalisi
Anche sul piano stilistico Vie privée alterna momenti ispirati a soluzioni più meccaniche. La fotografia calda e geometrica di George Lechaptois restituisce un’eleganza patinata, ma finisce col rendere l’universo di Lilian un esercizio di forma più che di sostanza. Il montaggio di Géraldine Mangenot segue fedelmente l’instabilità del personaggio, ma contribuisce a un senso di dispersione che impedisce al film di trovare un ritmo interno coerente.
Zlotowski sembra più interessata al tema della “cura” che alla dimensione del crimine, e in questo passaggio di sguardo c’è tanto fascino quanto confusione: la ricerca del colpevole si trasforma in un gioco di specchi psicologici che a tratti si fa autoreferenziale. L’intenzione è nobile, ma il film finisce per analizzare più sé stesso che la sua protagonista, perdendo di vista l’emozione dietro l’intelletto.
Il fascino dell’imperfezione
Vie privée è un film diseguale ma comunque affascinante, un esercizio di stile che riflette sulla solitudine, sul bisogno di controllo e sull’impossibilità di conoscere davvero l’altro. Se la sceneggiatura si perde in qualche sottotrama superflua e la detection resta più simbolica che avvincente, Jodie Foster la tiene viva con una prova carismatica e sfumata, capace di passare dal sorriso all’angoscia in un battito di ciglia. Zlotowski realizza una commedia dell’incertezza, in cui l’errore e la vulnerabilità diventano la forma più autentica di umanità. Non tutto convince, ma la combinazione di intelligenza, ironia e malinconia fa di Vie privée un piccolo, raffinato enigma sul bisogno di sentirsi vivi.

