Ci ho messo un po’ a scrivere questo pezzo. E non perché non sapessi cosa dire, ma perché dovevo lasciar decantare tutto. Le emozioni, le immagini, le voci. Le corse, le attese, le lacrime. Tutto ciò che un viaggio come quello verso Cesena porta con sé non si scrive subito: ti resta addosso, si incastra tra i pensieri, ti tiene sveglia la notte finché non decidi di affrontarlo.
Sono passate settimane da quando, più o meno consapevolmente, ho scelto di partire. Una trasferta, mi dicevo. Un concerto come tanti altri. E invece no. È bastato il primo chilometro per capire che questa volta sarebbe stato diverso. Sono passati pochi giorni da quando tutto è accaduto, ma ogni volta che ripenso a quella sera, o che si avvicina la data natalizia di Diego Naska, sento di nuovo vibrare il petto. È come se quella notte fosse rimasta sospesa nel tempo, pronta a tornare viva ogni volta che chiudo gli occhi.
Mi sono presa del tempo, sì. Tempo per elaborare, per respirare, per non farmi travolgere da quello che ho provato. Nel frattempo la Festa del Cinema mi ha risucchiata nel suo caos luminoso, ma dentro di me Cesena non si è mai spenta. Tutto era lì, in attesa. Bastava anche solo pensare a rivederlo (ancora una volta, sotto Natale) per sentire riaccendersi tutto. È così, con Diego succede sempre: ogni concerto diventa un punto fermo nella memoria, un riflesso che ritorna, anche quando pensi di averlo archiviato.
Non importa se ha stonato, se il suono non era perfetto, se la sala era troppo piena o la gestione caotica. Tutto questo passa in secondo piano. Quello che resta, quello che si incide dentro, è il modo in cui mi fa sentire. Diego ha un potere, e non credo che nessun altro riesca a toccare la mia psiche come fa lui.
Così eccomi qui, finalmente pronta a mettere nero su bianco (virtualmente) quello che Cesena è stata per me. Perché c’è sempre un brivido nel mescolare le emozioni che sai che proverai a quelle che nascono solo nel viaggio. Dalla scelta dei compagni con cui condividere l’avventura, al momento in cui questa finisce e ti ritrovi svuotata, ma grata. Ci sono attese che ti consumano il cuore, perché non vedi l’ora di rivivere certe canzoni; le stesse che ti hanno già fatto piangere una volta, ma che nel frattempo hanno cambiato significato.
E poi c’è la parte “lavorativa”, quella che cerchi di tenere in piedi mentre tutto dentro di te crolla e si ricompone: le foto da scattare, la lotta per trovare il tuo posto sotto palco, la tensione che cresce, le situazioni paradossali che solo un live di Naska può regalare. Ma anche quella è parte del viaggio. Fa parte del racconto, di ciò che poi, inevitabilmente, resta.
Arrivare al Vidia quella sera è stato come varcare la soglia di un altro mondo. Il parcheggio pieno di voci, di birre condivise, di gente che già canta a squarciagola. Dentro, un’energia che pulsava nelle pareti.
E poi, quel colpo di batteria. Paolo Gnani che apre la danza, e Diego che appare come un lampo: nessuna scenografia, nessun filtro. Solo lui, con la voce ruvida e vera che ti strappa il cuore e lo ricuce con una carezza.
Ogni canzone è stata un pezzo di carne viva: rabbia, ironia, dolcezza. Non c’era scaletta, solo istinto. Si rideva, si urlava, si piangeva. A un certo punto ha iniziato Piccolo tra la folla, e lì, nel mezzo di quel caos, il mondo si è fermato. Diego in mezzo alla sua gente, stretto da chi lo ama, abbracciato da un coro di voci spezzate. Nessuna distanza, nessuna barriera. Solo verità. Quella verità che ti attraversa e ti lascia senza fiato.
Sul palco non è mai perfetto, e per fortuna. È umano, vivo, completamente immerso in ciò che fa. Suda, sbaglia, ride, si arrampica, si lancia. Non interpreta, è. E forse è questo il suo potere più grande: farti sentire che tutto ciò che provi è giusto così, anche quando ti travolge. Il finale è un grido collettivo: Punkabbestia. Le prime note e il Vidia esplode. Diego si tuffa nel pubblico, canta, abbraccia, ride. È la chiusura perfetta di una notte che non si dimentica.
Fuori, la notte romagnola è densa di vita. Voci roca, mani tremanti, occhi lucidi. Tutti sanno di aver vissuto qualcosa che non si ripete. E sì, ci sono state difficoltà, organizzazione discutibile, spazi stretti, attimi di tensione. Ma nulla può scalfire quello che quel concerto ha rappresentato.
Perché alla fine non è stato solo un live. È stato un viaggio: dentro di me, verso di me. E forse è proprio per questo che ho impiegato tanto a scriverne: perché non sapevo da dove cominciare per spiegare qualcosa che si può solo sentire.
Naska, ancora una volta, è riuscito a scuotere tutto. A ricordarmi che la musica, quando è vera, non finisce mai davvero. Ti resta addosso, anche quando pensi di averla lasciata andare.

