Superaurora

Altro che Coachella italiano… Dopo due giorni trascorsi all’interno del SUPERAURORA Festival 2025, tra polvere, disinformazione e disorganizzazione, l’unica cosa che mi sento di dire con certezza è che i miei polmoni stanno ancora cercando di espellere la terra respirata. Sì, la location del Parco di Castello Chigi è scenografica, suggestiva, ampia e carica di potenziale. Ma quando si mette in piedi un festival così ambizioso e si fallisce su quasi ogni fronte logistico, l’effetto finale non è “esperienza da sogno”, bensì frustrazione, caos e una gran voglia di non tornare.

Nell’articolo sul live reportage della prima edizione avevamo già affrontato gli “amari in bocca” che questo festival ci aveva lasciato. Quest’anno non possiamo fare a meno di rimarcarli. È vero: alcuni miglioramenti ci sono stati. Gli spazi sono stati organizzati in modo più funzionale, la visuale sui palchi è più vivibile e anche bagni e zone ristoro sono stati gestiti con più cura. Ma le file chilometriche hanno reso pressoché impossibile anche solo pensare di concedersi un pasto. Il primo giorno, inoltre, l’area “VIP” è stata praticamente aperta a tutti; il bar “esclusivo” ha avuto le stesse identiche code del resto dell’area. Le casse hanno funzionato a intermittenza, la connessione Wi-Fi – sbandierata come servizio per migliorare l’esperienza del pubblico – non ha retto l’afflusso. Risultato: caos generalizzato, frustrazione, nervosismo palpabile.

Fin dall’arrivo, la sensazione dominante è stata la confusione. Nessuna comunicazione chiara, una mappa poco leggibile, nessuna legenda visibile per pass, bracciali o aree di accesso. Il personale della sicurezza, spesso giovanissimo e spaesato, faceva il possibile, ma senza linee guida precise risultava impossibile lavorare. Scattare foto sotto palco? Praticamente negato. Registrare contenuti o interviste? Impossibile. Nessuna zona stampa attrezzata, zero punti per ricaricare, nessuna attenzione per chi lì dentro stava lavorando. L’intero comparto media è stato trattato con sufficienza e nervosismo. Molti colleghi hanno addirittura rinunciato a portare a casa contenuti, bloccati da accessi limitati e da una gestione che sembrava più ostacolare che agevolare.

Le note positive, perché ci sono anche quelle, riguardano le esperienze extra-musicali offerte: nel mio caso, grazie al pass, ho avuto accesso gratuito alla ruota panoramica e al giro in mongolfiera. Due momenti sinceramente suggestivi, visivamente d’impatto e capaci di offrire una pausa dal caos. Ma non oso immaginare quale potesse essere il costo per un biglietto singolo.

Eppure, la musica ha tentato – spesso riuscendoci – di alzare la testa sopra al disastro gestionale. Il venerdì si è acceso grazie al set monumentale di Carl Cox sul Pulsar Stage, ma è stato sull’Andromeda Stage che si è respirata davvero emozione, con Kid Yugi che ha portato in scena un live potente, denso, sincero. Un ragazzo che sa raccontare la sua generazione con una penna autentica e una presenza scenica magnetica.

Poi sono arrivati i BNKR44, con la loro energia trascinante e un seguito da brividi. In cinque sul palco, affiatati e determinati, hanno infiammato il pubblico con un concerto che è stato voce e cuore di chi la provincia l’ha vissuta davvero, e ancora la racconta con orgoglio.

Sabato è toccato ai pesi massimi del rap romano, Noyz Narcos e Ketama126, regalare momenti di vera comunione generazionale. Brani che suonavano come colonna sonora di chi è cresciuto nei 2000, con un piede nel disagio e l’altro nell’orgoglio identitario.

Il gran finale è arrivato con Meduza e Mace, che hanno trasformato la notte in un rave elegante, facendo dimenticare – almeno per qualche ora – la polvere, le file, il disservizio. E sì, è in quei momenti che il SUPERAURORA mostra cosa potrebbe davvero essere. Un’esperienza collettiva, immersiva, viva.

Ma non basta. La musica non può e non deve essere un cerotto su una gestione fragile. Non può essere sempre l’elemento salvifico. Quando finisce l’ultimo beat, resta la sensazione di aver vissuto qualcosa di incompleto. Ed è un peccato, perché il progetto ha fondamenta forti: la location è unica, le line-up coraggiose e sempre più raffinate, l’attenzione estetica è curata. Ma serve molto di più. Serve organizzazione, rispetto… un piano che funzioni davvero, non solo su Instagram.

Oggi, no: non è il Coachella italiano. È un’idea bella, ambiziosa, ma ancora acerba. Con ascolto, pazienza e attenzione ai dettagli (soprattutto quelli invisibili), potrà forse diventarlo. Ma solo se si smetterà di dare per scontato che la musica basti. Perché la musica cura, sì. Ma non sistema da sola una macchina che ancora oggi, purtroppo, fatica a mettersi in moto.

di Aida Picone

Guardo troppi film e parlo troppo velocemente, ma ho anche dei difetti!

Related Post

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *