Il Mediterraneo Tour approda nella sua tappa romana, e salire su quel galeone è un’esperienza che non si dimentica. Appena le luci si abbassano e la prima onda di suono ti investe, capisci che non stai solo assistendo a un concerto: stai partendo per un viaggio. Un viaggio che sa di mare, di salsedine, di ricordi e di ritorni.
L’attesa, all’interno del Palazzo dello Sport, era febbricitante. I cori su “Guasto d’amore“ si levavano alti, facendo cantare le persone dal parterre agli spalti. Una marea umana che si muoveva al ritmo di un’unica voce, come se il concerto fosse già cominciato molto prima che Andrea salisse sul palco.
Bresh colpisce dritto al cuore e io ne sono la prova vivente. Sono legata a molte delle sue canzoni in modi che nemmeno sapevo. Non avevo idea di chi fosse mentre cantavo “Nightmares“, ma conoscevo i Pinguini. Non sapevo ancora riconoscere la sua voce quando imparavo a memoria Torcida, e dicevo perfino che non mi piaceva mentre urlavo a Sanremo “La tana del granchio“. Eppure, in qualche modo, c’era già. Sotto pelle, nascosto tra le pieghe dei miei giorni.
Poi è arrivata “Tarantola“, e con lei la resa. Mi sono arresa a quella voce che scava, che ti avvolge e non ti lascia più andare. Ho pianto tutte le mie lacrime con Guasto d’amore, non per fede calcistica ma, per quella naturale e spietata associazione con il proprio malessere di turno.
Persino prima di uscire di casa, mentre mi facevano ascoltare “Svuotatasche” torcevo il naso. Eppure mi ci vorrebbe proprio un posto dove lasciare in vista le cose che mi servono tutti i giorni. Bresh è così: entra in punta di piedi, e quando te ne accorgi è già parte di te.
Durante il concerto, quel magico vento di “Kamala” si respirava fin sopra gli spalti. Le lacrime sono scese senza preavviso, e la mia anima è rimasta legata al Palazzetto dello Sport, incapace di tornare a terra.
Un po’ di mal di mare e un po’ di nostalgia. Il cuore ancora lì, sospeso tra la marea di luci e le voci che si intrecciano come onde.
Lui ha questa capacità incredibile: legare il mio passato al mio presente. Crueza de mä ne è il filo conduttore. Torno ad essere quella bambina che, in auto con suo padre, scopriva per la prima volta De André. Quella che assorbiva testi intrisi di poesia e sarcasmo socio-politico, che odiava e amava le contraddizioni della propria terra fino a farne, crescendo, un marchio di fabbrica.
Perché sì, anch’io vengo dal mare. Da un posto geograficamente opposto da quello di Bresh e di Faber, ma non così diverso. In quel genovese sento un’eco di siciliano: non per lingua, ma per evocazione. In quei pescatori e in quelle reti rivedo la mia gente, le mie tradizioni, e capisco quanto poco contino le distanze quando il mare è lo stesso, quando le onde parlano la stessa lingua. E poi, diciamolo, andando a Genova o a Sanremo ho ritrovato sapori familiari. Chiedete quante Sardenaira ho divorato durante il Festival, solo perché mi ricordavano la saccenze, la pizza tipica della mia città.
Poi arriva la parte acustica, e per un attimo si recupera il fiato. Si abbassano i volumi, si alzano le emozioni. Ma con “No Problem” arriva un’altra scarica al cuore. Bresh invita sul palco una decina di ragazzi, tre dei quali si chiamano Andrea. Li fa salire con sé, e per qualche minuto il palco diventa casa. Un piccolo gruppo in rappresentanza di tutte le anime che avevano cantato per tutta la sera. Tre Andrea pescati dal mazzo, ma in fondo è il nome più comune d’Italia, e una canzone che unisce tutti.
È un momento semplice, ma potentissimo. Impossibile non sentire addosso la loro gioia: la vivi, la riconosci, ti ci specchi dentro. Ti senti uno di loro mentre abbracciano il loro artista preferito o cantano in quel microfono che lui porge con naturalezza, come se fosse un amico. Un salotto di casa, davvero: Bresh è riuscito a creare un clima così caldo, così umano, che sembra averci fatto accomodare tutti nel suo cuore. E sì, chi scrive questo articolo ha pianto (se non si fosse già capito). Lacrime condivise, felici, di quelle che fanno bene perché nascono dalla bellezza.
Perché Mediterraneo non è solo un titolo: è un viaggio. E in ogni viaggio, la rotta conta meno dei compagni con cui lo condividi. In quell’istante sembrava davvero di essere approdati a Tortuga, o forse all’isola che non c’è: un piccolo porto fatto di respiri, dolcezza e mare calmo dopo la tempesta. E quando tutto sembrava finito, proprio “Guasto d’amore” , la stessa che aveva acceso l’attesa, ha chiuso il cerchio. Bresh si è mescolato alla folla, bagnandosi di quegli umori e di quelle maree fatte di cuori che battevano solo per le sue canzoni. Un ritorno al ventre del pubblico, dove tutto era cominciato.
Questo non è stato solo un concerto, è stato un ritorno a casa; anche per chi casa la sta ancora cercando.

