Good Boy

Presentato nella sezione Progressive Cinema della Festa del Cinema di Roma, Good Boy segna il ritorno del regista candidato all’Oscar Jan Komasa (Corpus Christi, The Hater) a un cinema morale, viscerale e disturbante. Con un cast d’eccezione guidato da Stephen Graham, Andrea Riseborough e dal giovane Anson Boon – premiato con il “Vittorio Gassman” come Miglior Attore per la sua interpretazione – il film costruisce un racconto di prigionia e redenzione che scava nella violenza quotidiana, nei meccanismi del controllo e nelle zone grigie dell’amore malato.

La trama segue Tommy (Boon), diciannovenne arrogante e autodistruttivo che trasmette in diretta sui social le proprie aggressioni e umiliazioni agli altri. Dopo una notte di eccessi, il ragazzo viene rapito da Chris (Graham) e Kathryn (Riseborough), coppia borghese dall’apparenza irreprensibile, decisa a “rieducarlo” attraverso un metodo tanto perverso quanto inquietante. Quando Tommy si risveglia incatenato nel seminterrato della loro villa, capisce di essere diventato il progetto pedagogico di due genitori adottivi ossessionati dalla morale e dal controllo. La sua “riabilitazione” si trasforma in un percorso che oscilla tra tortura e terapia, paternità e punizione, dove l’orrore si traveste da disciplina e l’amore da dominio.

Moralità e controllo: il paradosso della cura

Komasa affronta un terreno etico insidioso, costruendo un racconto che interroga i confini tra educazione e violenza, tra il desiderio di essere accettati e la perdita della propria identità. Good Boy è un esperimento morale che manipola lo sguardo dello spettatore: inizialmente si condanna Tommy per la sua brutalità, ma presto il vero orrore emerge nei suoi “rieducatori”. Più la famiglia cerca di correggerlo, più rivela la propria ossessione per il potere e la purezza. È questo il paradosso al centro del film — la bontà come forma di controllo, la redenzione come imposizione.

Komasa filma la prigionia con eleganza glaciale, trasformando l’intimità domestica in un campo di rieducazione. Ogni gesto è una minaccia, ogni sorriso un ricatto. L’estetica sobria e claustrofobica privilegia la tensione mentale alla violenza fisica, spingendo il racconto in una dimensione quasi filosofica. Tuttavia, la potenza del discorso morale si incrina nel finale, che opta per la sorpresa più che per la coerenza psicologica, attenuando la forza del conflitto.

Rabbia, vulnerabilità e metamorfosi degli attori

Il premio a Boon è meritato. Il suo Tommy è un corpo ferito, animalesco e imprevedibile: all’inizio pura tossicità, poi progressivamente umanizzato dal dolore. L’attore dosa istinto e fragilità, costruendo un arco emotivo sorprendentemente credibile. La sua recitazione, fisica e febbrile, si regge su micro-reazioni e silenzi carichi di paura.

Accanto a lui, Stephen Graham è magnetico. Con la compostezza di un insegnante di provincia e lo sguardo di un carnefice, trasforma Chris in un villain inquietante, sospeso tra la follia e la compassione. Andrea Riseborough completa il quadro con una presenza spettrale: una madre luttuosa, fragile e manipolatrice, che rivela la vera anima del film. Tutti e tre danno vita a un triangolo emotivo tesissimo, dove l’affetto diventa coercizione.

Casa come prigione, famiglia come set

La regia di Komasa è asciutta, calibrata e glaciale. Gli interni sono bianchi, ordinati, quasi pubblicitari; i corridoi simmetrici e senza tempo evocano un teatro domestico del controllo. Il contrasto con il caos urbano dell’inizio è netto: dal rumore dei club e dei social al silenzio assoluto della casa-gabbia.

La fotografia crea una palette spenta, tendente ai grigi, in cui la luce diventa strumento di potere: quando Chris parla, la stanza è illuminata; quando Tommy si ribella, torna l’ombra. Ogni elemento scenico – il collare di metallo, la tazza di tè, il televisore che proietta le vecchie dirette del ragazzo – diventa simbolo di un disciplinamento morboso. È un linguaggio visivo che riflette il tema centrale: la libertà come illusione sorvegliata.

L’umanità al guinzaglio

Nonostante qualche incertezza, Good Boy resta un’esperienza disturbante e ipnotica, sorretta da interpretazioni intense. Il film non cerca risposte, ma lascia lo spettatore con interrogativi corrosivi: chi stabilisce cosa significhi essere “buoni”? E fino a che punto siamo disposti a lasciarci domare, in nome dell’amore o della morale?

Good Boy è una fiaba nera sul bisogno di controllo e sulla crudeltà travestita da amore. Imperfetto nel suo ultimo atto, ma coerente nella sua visione disturbante, resta uno dei titoli più interessanti e provocatori del festival.

Good Boy arriverà in sala nel 2026 distribuito da Minerva Pictures e Filmclub Distribuzione.

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