Per poter guardare all’orrore, molto spesso, basta cambiare prospettiva su qualcosa di familiare. In questo, Jordan Peele ci ha un po’ abituati costruendo il terrore intorno a solide metafore quotidiane. “Him” esegue lo stesso ragionamento. Nonostante Peele sia stato interno al comparto produzione, in questa pellicola riecheggia il suo artiglio. Un incrocio di mondi con radici in grado di affondare in profondità.
Justin Tipping, alla regia, e Jordan Peele, in produzione, prendono la materia viva dello sport e la deformano fino a renderla carne, sudore e paura. L’ispirazione arriva da luoghi lontani: la scultura, l’arte figurativa, l’architettura, le campagne Nike e Air Jordan degli anni ’90. Tutto convive in un’estetica sospesa tra barocco urbano e pubblicità da incubo, dove la luce scolpisce i corpi come fossero statue, e il dolore diventa performance.
Se di sport si deve parlare, quindi, lo si rende esempio di tutta la tossicità e le ossessioni che caratterizzano sempre di più la nostra società. Si usa lo sport più americano di sempre, il footbool, e lo si eleva a spiritualismo e cameratismo. Si abbattono gli idoli e li si deformano tanto da inniettarli proprio sotto pelle.
La caduta del campione
“Him” segue Cameron Cade (Tyriq Withers), promessa del football americano che vede la propria carriera spezzarsi dopo un’aggressione. Quando Isaiah White (Marlon Wayans), leggenda vivente dei San Antonio Saviors, gli offre la possibilità di allenarsi nel suo centro privato nel deserto, Cameron crede di poter rinascere. Ma quel luogo non è un tempio dello sport: è un laboratorio di follia.
Allenamento dopo allenamento, il corpo diventa campo di battaglia. La fatica si trasforma in punizione, la devozione in ossessione. Il dolore è il nuovo linguaggio, e il sangue la moneta con cui si compra la gloria.
Una gloria così tanto perseguita da diventare un Dio da dover pregare. Una devozione che diventa ossessione e tramuta addirittura la forma del proprio respiro.
Il culto del corpo
In “Him” la religione non è nei simboli, ma nella carne. La croce si sposta sul corpo dell’atleta, aperto, ferito, ricomposto e spinto oltre ogni limite. L’immagine di Cameron coperto di sangue, braccia spalancate, non è solo una provocazione: è una dichiarazione di poetica.
Tipping costruisce un’estetica da delirio mistico, dove la fede sportiva diventa fanatismo e il corpo si consuma fino a perdere ogni identità. La macchina da presa non si limita a guardare: seziona. Mostra i muscoli che cedono, le ossa che scricchiolano, la pelle che suda, vibra, si spezza. È body horror allo stato puro, quello che ti fa sentire la fatica addosso, che trasforma ogni respiro in un atto di resistenza.
Allo stesso modo, tagli e ferite sono emblema del dolore e della crucialità di ciò che si sta affrontando. Deformano la pelle tanto quanto scavano in fondo. La sovrapposizione visiva, in tal senso, riesce a inoculare nelle retine dello spettatore un chiaro messaggio: la perdita di controllo. Non si è più un semplice giocatore, ma si diventa parte di un unico corpo. Una follia dilaniante che vibra goccia dopo goccia, sputo dopo sputo.
Un incubo visivo e sonoro
La colonna sonora di Bobby Krlic, costruita su rumori medicali, trap distorta e suoni di risonanza magnetica, amplifica la sensazione di intrappolamento. Ogni battito diventa un colpo, ogni respiro un allarme. L’estetica da videoclip serve solo a confondere i sensi, trascinando lo spettatore dentro un delirio fisico e mentale da cui è impossibile uscire illesi.
Peele, Tipping e la nuova pelle dell’horror
Jordan Peele lascia la sua impronta ovunque: l’ossessione per il controllo, il potere della paura, il sottotesto sociale che serpeggia anche quando non è detto. Ma è Tipping a sporcarsi le mani, a trasformare l’allenamento in tortura e la redenzione in dissoluzione. Con “Him” firma un film viscerale, imperfetto, ma vivo. Uno di quelli che non si guardano: si subiscono.
Anche quando l’orrore si sposta al mero surrealismo riesce comunque a mantenere i piedi ben saldi a terra. Nei momenti finali, quando tutto assume una dimensione pressoché demoniaca, è possibile saggiare con propria mano le divinità. La rendenzione non è possibile se non attingendo ad altra violenza. L’espiazione può avvenire solo attraverso il sangue.
Un’esperienza estrema
“Him” non fa prigionieri. Ti lascia con la sensazione che il corpo sia l’unico vero mostro, l’unica divinità che pretende sacrifici. È un film che non si ferma davanti al disgusto, che usa la carne come linguaggio e la sofferenza come estetica.
Disturbante, ossessivo, magnetico: “Him” è un’esperienza più che un film. Una ferita aperta sul corpo del nuovo horror americano. Una metafora in grado di narrare le ossessioni di una società sempre più simile a una camerata che a delle menti pensanti.
“Him” è al cinema dal 2 ottobre, distribuito da Universal Pictures.

