Presentato nella Selezione Ufficiale di Alice nella Città dopo i passaggi a Sundance e Karlovy Vary, “Rebuilding” conferma Max Walker-Silverman come una delle voci più sincere e umaniste del nuovo cinema indipendente americano.
Ambientato tra le vaste pianure del Colorado, il film segue la storia di Dusty (Josh O’Connor), un cowboy moderno che ha perso tutto in un incendio devastante e cerca di ricostruire la propria vita in un campo della protezione civile. Accanto a lui la figlia Callie-Rose (Lily LaTorre), l’ex moglie Ruby (Meghann Fahy) e una piccola comunità di sfollati che diventa presto una nuova famiglia. Tra precarietà, silenzi e piccoli gesti quotidiani, Dusty impara che “ricostruire” non significa solo rialzarsi, ma reinventarsi.
Uomo, natura, rinascita
Walker-Silverman torna nei paesaggi della sua terra con lo stesso sguardo poetico e contemplativo di A Love Song, intrecciando la fragilità umana con la forza rigenerante della natura. La fotografia di Rebuilding abbraccia il contrasto tra la desolazione post-incendio e la luce morbida del crepuscolo, trasformando il Colorado in un personaggio vivo, mutevole, ferito ma capace di rigenerarsi. Il fuoco, motore distruttivo e necessario, diventa metafora della perdita e della possibilità di rinascere. Il regista non racconta un disastro, ma ciò che accade dopo: il lento ritorno alla vita, l’umiltà del quotidiano, la scoperta di una stabilità possibile nell’impermanenza.
Josh O’Connor: la fragilità dell’eroe western
Con la sua interpretazione silenziosa e fisica, Josh O’Connor offre a Dusty un’intensità dolente che conferma il suo straordinario talento. Il suo cowboy non è un eroe d’azione ma un uomo che si piega al dolore senza smettere di cercare la tenerezza. Ogni gesto, ogni esitazione del corpo racconta la fatica di chi deve imparare a essere padre, uomo e sopravvissuto. O’Connor lavora per sottrazione, costruendo un personaggio che vive di sguardi più che di parole. Accanto a lui, Lily LaTorre illumina il film con una naturalezza disarmante, mentre Meghann Fahy e Kali Reis, pur meno valorizzate dalla sceneggiatura, aggiungono calore e profondità emotiva.
La comunità come rifugio
Se Rebuilding parla di rinascita individuale, è nella collettività che trova il suo cuore più autentico. Il campo della protezione civile, fatto di roulotte, polvere e mani che si aiutano, diventa simbolo di un’America dimenticata ma ancora capace di solidarietà. Walker-Silverman osserva i suoi personaggi con rispetto, senza mai indulgere nel pietismo, mostrando come la sopravvivenza passi attraverso la condivisione. È un’idea di comunità fragile ma reale: la speranza non come promessa, ma come scelta quotidiana.
Cinema del cuore (e del rischio)
Il regista costruisce un racconto di rara sincerità, ma a tratti eccessivamente consapevole della propria bontà. La messa in scena è dolce e intima, sostenuta da una regia che ama i volti, le pause, le chitarre malinconiche che accompagnano le giornate. Tuttavia, l’equilibrio tra lirismo e autenticità non sempre regge: alcune sequenze sembrano scolpite più per emozionare che per raccontare. Rebuilding crede profondamente nella gentilezza, nella bellezza dei piccoli gesti e nella possibilità di ricominciare, ma la sua purezza rischia a tratti di sfiorare l’ingenuità. È un film che si espone al sentimentalismo, pur mantenendo un cuore sincero e coerente.
Un’America che sogna ancora
Imperfetto ma toccante, Rebuilding è un inno silenzioso alla resilienza. Walker-Silverman firma un’opera che non parla di catastrofi, ma di come si sopravvive dopo. È un film di luci morbide e suoni lontani, di mani che costruiscono e occhi che imparano a guardare di nuovo. Nella sua semplicità, trova un respiro poetico che commuove senza forzature, ricordandoci che ricominciare – come amare – è sempre un atto di fede.
Rebuilding arriverà nelle sale italiane nel 2026 con Minerva Pictures e Filmclub Distribuzione.

